“Tre sassolini per una Titanca”
Accanto alla pozza, sul marciapiede, vicini ad una mattonella scheggiata, ci sono tre sassolini.
La porta di casa é chiusa. La sera canta, la pioggia sorride sui miei capelli pettinati da 42 ore di viaggio.
Giá. Tre sassolini. Già. Siamo tornati a casa.
Vento.
Oltre il cancello di una contadina dell’isola di Amantani c’è una pianta rampicante che sale sul muro di fango, paglia e merda di capra. È il simbolo della lotta alla sopravvivenza di questa gente su questo pezzo di mondo che gira all’inverso rispetto a quello che corre oltre i confini del lago Titicaca. Si perché su quest’isola ai confini delle stelle, non esistono motori, internet é un vocabolo alieno, la televisione e le auto sono simbolo della decadenza umana, il cemento é un probabile segno del degrado futuro ma non presente, e il motto di tutti i contadini che campano da queste parti é uno solo: non essere bugiardo, non rubare e soprattutto non essere pigro.
Qui si vive solo dei prodotti della terra, nonostante l’acqua riempia gli occhi di chiunque, nonostante il lago mangi il panorama da tutte le parti fino a sembrare mare, nonostante si possa pensare solo a prima vista che questa gente sono solo pescatori.
Nient’affatto. Qui si lavora la terra, si piega la schiena, si mescolano i fili d’erba secca al cielo, si parla con le nuvole, si allevano capre e qualche vacca, ci si carica ogni tipo di peso sulla schiena, ci si veste con abiti e costumi di cinquecento anni fa. Ma non perché é carnevale tutti i giorni. Solo perché é cosi da sempre e così forse sarà un giorno finché esisterà la forza di far valere il valore della tradizione anche oltre i perfidi giochi delle comodità.
Quella donna che ci ospita ha il volto discreto di una timida che tenta disperatamente di non esserlo. Parla solo una lingua sconosciuta e biascica qualche parola di spagnolo. Dormiamo in camere che sembrano celle di un monastero. Condividiamo una minestra calda con patate e acqua calda. Ci perdiamo nella luce delle stelle, un’autostrada di lucciole che corre verso l’infinito. La croce del sud ci illude. Forse sulla cima di Amantani, si, forse sulla cima di Amantani, di quel l’isola perduta nel fascino e nel mistero delle Ande, troveremo la Titanca e forse la Titanca fiorirà.
Camminiamo fin sulla cima della collina più alta, dove un tempio quadrato ricco di enigmi si aspetta qualcosa da noi.
Tira vento, ci screpola le labbra la disidratazione, ci corre incontro una venditrice di golf di Alpacha, sorride solitaria.
Fra i sassi e la polvere gli dei ci tolgono il fiato.
É dalla cima di questa collina che mentre scorgo il profilo dolciastro della Bolivia nella penombra di un lago che sembra un oceano capisco fino in fondo i miei compagni di viaggio.
Li guardo salire uno dopo l’altro su un sentiero di polvere e sassi, li scorgo affaticarsi, fermarsi e ripartire e comprendo che ognuno di loro viaggia per una ragione precisa. Lo so. Lo avverto. Lo percepisco. Lo sento.
Viaggiamo tutti perché in fuga, forse da tutta la vita.
C’é chi viaggia perché ha perso l’amore, c’è chi ha perso la speranza, c’é invece chi ha perso la fiducia e chi ha perso la possibilità di sognare. C’é poi chi ha smarrito la fantasia, chi la forza, chi la fede e chi invece non ha capito gli intrecci infidi e meschini che tessono le mani della morte lungo la tela. Ognuno sorride nascondendo la sete della ricerca.
Tutti corrono mentre camminano. Tutti fuggono senza sapere di fuggire. E tutti cercano la Titanca perché è il segno della luce dell’alba oltre la mano della notte.
In cima al tempio quando tutti arrivano un vecchio con un fazzoletto sulla testa e un bastone stretto tra le braccia seduto sotto un arco ci dette l’ennesima amara sentenza. Non parlava italiano ma capimmo perfettamente il senso.
“La Titanca? Non cresce ad Amantani almeno dal tempo degli Inca. Qua trovate lo spirito della forza ma non certo quel fiore, che non ha mai fatto parte di questa cultura.
Correte verso nord. Oltre Cuzco qualcuno saprà illuminarvi“.
Ci facemmo consolare dai sorrisi dei popoli Uros, sulle isole galleggianti del lago, viaggiammo lungo la ferrovia desolata tra le Ande attraversando paesi sperduti e rovine Incas. La vista della neve dei ghiacciai perenni in lontananza, riaccese la speranza che stava spegnendosi in fondo ai nostri occhi e continuammo a cantare in viaggio pettinando una vecchia chitarra scordata.
Bevemmo mate de coca caldo ai passi più alti, masticammo cioccolata, leggemmo racconti di Sepulveda sulla frontiera scomparsa, consolammo i brividi di freddo con coperte di vigogna.
Oltre il sole che seccava le ferite splendeva alto il desiderio di vedere quel fiore, la regina delle Ande.
Ero certo che ognuno di noi, dentro, aveva chiaro l’obiettivo.
Quel fiore non era solo il simbolo di un popolo represso con il sangue che risorge nella storia, con la sua fede e con la sua profondità.
Saremmo stati sinceri con noi stessi. Avremmo avuto chiaro l’orizzonte.
Nessuna menzogna.
Nella valle sacra il fiume Urubamba si snodava tra paesi, silenzi, qualche eucalipto e coltivazioni a terrazza di patate di ogni genere.
Contadine colorate piegate come virgole in lontananza accendevano la monotonia delle campagne peruviane con le loro sottane fucsia.
Salutavano il treno che ogni tanto sbuffava con la mano, ci guardavano stupite come fossimo animali da circo in arrivo in paese per la festa dell’estate.
Anche laggiù, dove gli Inca ebbero il loro ultimo sussulto di orgoglio oltre le punte delle spade del condottiero Pizarro, l’amarezza pervase ancora la nostra bocca.
La Titanca era solo un ricordo di tanti anni prima anche lassù, dove iniziava la strada per Matchu Pitchu.
Nessuno l’aveva più scovata, più trovata, o forse ancor peggio, pensai terrorizzato al solo pensiero di pensarlo, nessuno l’aveva più cercata. Se era vero infatti che quello era il fiore della loro forza, della loro fierezza e della loro tradizione che vinceva sulla colonizzazione degli spagnoli risorgendo alla distanza, era vero anche che il novecento inteso come secolo della modernità e della fase più acuta dell’industrializzazione aveva avuto la meglio.
Il pueblo peruviano si era assuefatto al giogo della globalizzazione, alla falsa e finta indipendenza conquistata con trattati di penna e non di cuore dal 1821, aveva mescolato ad arte gli dei cristiani a quelli inca, aveva vestito Cristo il rivoluzionario con il gonnellino viola degli sciamani, aveva accolto le multinazionali che sfruttano sulle loro montagne i minerali senza rispetto per le leggi della natura, aveva accettato sommessamente la prepotenza occidentale come se una nuova colonizzazione li stesse investendo. Un processo tanto invadente quanto dilagante, ma meno violento, più potente, più sottile, più efficace, più meschino.
Questo popolo, pensai una sera accanto ad un fuoco leggero con le gambe semi chiuse di fronte ad un mate ed ai miei compagni di viaggio, questo popolo forse ha perso la speranza di un futuro diverso. Per questo non ha più visto la Titanca. Al mattino seguente all’alba raggiungemmo la magnificenza sobria e illuminata di Matchu Pitchu. In cima alla montagna la città perduta ci dette luce fra i picchi della giungla e restituì pace al nostro tormento. Un pastore di lama che coglieva erba di campo ci comparve di fronte. Aveva scarpe bucate ed un mantello scuro. Preso dalla disperazione mi rivolsi a lui. “Amico mio, gli dissi, siamo in viaggio da tempo e stiamo cercando la Titanca, la regina delle Ande. Tu sai se fiorisce quassù?”. L’uomo osservò il cielo, si asciugò la bocca umida, si inumidì la punta del pollice e dell’indice della mano destra, alzò un dito verso l’eterno, ascoltò il vento e poi parlò.
“Seguite il sentiero e dirigetevi in cima. La Titanca che da tanto cercate stamani è fiorita oltre quella porta, lassù, ma la troverete davvero solo al vostro ritorno a casa, se vedrete di fronte alla porta tre sassolini: il condor, dio del cielo, il puma, dio della terra e il serpente, dio delle viscere”
Non capimmo tutto, ma molti di noi ormai avevano perduto ogni speranza. La Titanca non l’avremmo mai trovata, a quel vecchio non credeva quasi più nessuno. La Titanca non sarebbe stata neppure lassù, oltre Matchu Pitchu, all’Intipunctu, alla cosiddetta porta del Sole, che domina la città perduta dall’alto a due ore di salita tra le rocce, oltre la tomba della sacerdotessa.
Chiesi ai miei compagni un ultimo sforzo prima del non ritorno. Prima della fine del viaggio. Saremmo dovuti arrivare alla porta del sole nonostante la stanchezza e la sfiducia, lassù, poi, avremmo trovato comunque la fine. Non accettarono di buon grado, il cammino era lungo e in salita, ma alla fine mi seguirono nonostante l’asprezza. Dopo oltre due ore di fatiche tra serpi e pietre intravedemmo l’intipunctu, la porta del sole di Matchu Pitchu che domina la valle di Aguas Calientes. Il cielo si liberò delle nebbie e giunse il tepore del sole. Ci ritrovammo sorridenti seduti sotto la porta di seicento anni ad osservare la libertà purissima dell’orizzonte. Dietro di noi arrivava in salita il sentiero dell’Inca Trail, proveniente dall’altra parte della valle. Avvertimmo voci in lontananza venire verso di noi. “Viaggiatori come noi“, pensammo in silenzio.
Continuammo a perderci nello sguardo del profilo delle montagne bianche più lontane.
Ormai la Titanca, stava scomparendo. Le voci si avvicinarono sempre più forti. Ci comparve di fronte un gruppo di viaggiatori stanchissimi, si sedettero, bevvero, guardarono lontano, scrutarono il paesaggio, parlarono fitto.
Alcuni di noi provarono a cercare la Titanca tra le piante della giungla ma non vedemmo nessun fiore. Improvvisamente un uomo di quel gruppo si rivolse a noi.
“Amici, ci disse, stiamo cercando il fiore delle Ande, la Titanca, che fiorisce una volta ogni secolo. Qualcuno ci ha detto di arrivare quassù. Viaggiamo da tempo per trovarla ma non siamo stati fortunati. Stamani a valle una vecchia di fronte al fuoco ci ha detto che era fiorita oltre l’intipunctu“.
Ci guardammo, ci abbracciammo, sorridemmo. Mentre gli rispondevo che un vecchio dalla parte opposta mi aveva consigliato di intraprendere lo stesso cammino all’inverso, capimmo tutti che forse, avevamo trovato ciò che stavamo cercando.
La Titanca era spuntata dalla terra dei nostri occhi illuminati dal cammino della ricerca, della forza di volontà, della passione, dell’unitá del gruppo, del dolore condiviso, e del sacrificio comune. Rividi il nonno. “Filippo ricorda, il segreto dei fiori sta nel loro profumo“.
Non restava che tornare a casa.
42 ore di viaggio dopo, la porta é chiusa. Piove.
La sera canta, la pioggia sorride sui miei capelli pettinati dal cielo.
Accanto ad una pozza, sul marciapiede, vicini ad una mattonella scheggiata, ci sono tre sassolini.
Filippo Boni